Fablìole – Monsieur Quandmême
in http://www.gliamantideilibri.it
a cura di Barbara Bottazzi
Se è vero come scrisse Carl Kraus che la donna non ha una sessualità ma che è il sesso, allora se il film, la pellicola è femmina, quest’ultima del signor Bellocchio, Rapito, è senza fica e lo sai che non ho peli quasi da nessuna parte e men che meno che sulla lingua. E che non mi piace la critica come esercizio di stile ma di ricordo con rabbia. Tal che se di un’opera qualesiasi non riesco ad odiare o amare o a piangere, a smuovermi e muovermi per questo o quello tanto che per me pari sono, allora io dico ‘sta opera che me l’hai fatta a ffa’, punto di domanda. Così potrei chiudere qui citando mia moglie che, all’uscita dalla proiezione l’altro ieri, esclama, È un film vecchio. Non di un vecchio ché ci sono e ci sono statai vecchi gagliardi come Ken Loach e soprattutto capaci di guizzo poetico, per non dire poesia, di lirismo e umorismo che, a sentire lo spagnolo Francisco Umbral – La Noche que llegué al Café Gijón-Austral 2021/ La notte che arrivai al caffè Gijón- Ed Settecolori – è letteratura pura ; vero perché l’umorismo fino alle vette del comico stravolge il reale, lo ribalta così che mostra le mutande della dama infiocchettata che scivola sul marciapiede ( non è una metafora, di persona personalmente al vedere il tapis roulant dei divi alla Croisette penso sempre all’odore dei loro piedi ).
Insomma si fa ridere, o piangere o quel che è, perchè si scuote. Rapito non scuote nulla se non le briciole dalla tovaglia o la polvere dal tappeto ( entrambi metafore adesso sì) ; perchè è un film piovuto dal 1972 – mostra autogestita del cinema a Venezia, dove peraltro fu presentato la Ragazza del bagno pubblico di Jerzy Skolimowski ( da sussultare sulla sedia e lo feci) – ; ma nel 1972, chi lo può dire, forse Rapito sarebbe stato fischiato per i formalismi, le bellissime luci, il montaggio serrato, la musica di troppo, le smorfie dei primi piani e un eccesso generale di non-straniamento degli attori, bravi nèè, persino più bravi del solito, tutti ripuliti dal loro accento come Gifuni, candeggiati, deficati. Con tutte queste eccellenze da 4 hotel milanesi, il film non ti fa odiare il Pionòno – si chiamava così il mulo di Garibaldi che peraltro del personaggio diede una definizione icastica, un metro cubo di letame – ; eppure non lo si odia, te ne impipi della sua bava, quasi il Bellocchio si fosse sintonizzato con il pensiero di quel gran reazionario di Gipaolo2 che il Pionono lo beatificò. Ignoro il perché e delle virtù spirituali di chicche e ssia me ne fotto tanto che non so che vuol dire spirituale. Mi è capitato già di affermare che di una persona apprezzo se è spiritosa ma non credo che i due termini appena usati siano sovrapponibili, non nella vulgata.
Vado avanti cretino? Vado avanti e concludo. A parte detestare non si riesce nemmeno a piangere la sorte del povero Mortara, più che altro un Mortaretto; nemmeno quando libera Gesù dai chiodi in una citazione di Marcellino, pane e vino-1955 di Ladislao Vajda, film sì franquista di madre ungherese e padre spagnolo con Pablito Calvo che lui però ti spingeva i singhiozzi su per il gargarozzo da non riuscire più a vedere lo schermo. Sì sì ripeto ma che c’entra; anche Condottieri di Luis Trenker fu film fasistissimo ( Italia-Germania 1937) ma che tensione di campi e controcampi e di archi ( una volta si usavano i proiettorri ad arco per illuminare con le potenze da 5 e 10 kw) all’arrivo di Giovanni delle Bande Nere in Vaticano, conquistato lui Giovànbandanera da Sua Luminosità.
Nè si riesce a partecipare, in Rapito, il dolore del padre, un manzo israelita o della madre, bella donna ma preferisco è ovvio le madri di Todo sobre mi madre, persino di Mutter Courage und Ihre Kinder del BiBrecht dove la maternità è potenza (che mi dici te della madre che scendeva dalla soglia di uno di quegli usci di Manzoni -PS-cap. XXIV?), così com’è terragna, proserpinica, de core e de panza, non de strilli; e nemmeno de potere. Insomma mi pare che Bellocchio abbia concertato un bel lavoro democristiano o Ellyschlein-oriented, adatto ai tempi ma non agli spettatori. O se mai a spettatori democristiani e Ellyschlein-oriented. Insomma un film di compromosso antistorico. Poi si potrebbero fare gironamenti sul fatto che tutti i bambini sono rapiti nolenti all’infanzia e al gioco e alla impenitenza, dagli egotebaptizo ed eccecorpuschristi, da una religione – questa o quella per me pari sono – e insieme da un lessico familiare di riti e abusi – non è che la violenza è meno tale se non è carnale – e prima che dalla scuola (Chiudiamo le scuole Giovanni Papini 1918). Poi si può ragionare sul fatto che subito il bimbetto è rapito eccome da quell’estetica senza etica che è il cattolicesimo, diventa un soldato di Cristo, cioè una carogna e nella realtà della vita vivrà fino a 90 anni florido e pasciuto. Poi si può ragionare su tutto ma a ragionare son ben capaze da mè. Da un film pretendo di essere rapito. Viva Schindler’s List
Porto all’attenzione di chi non l’avesse letto il commento postato ieri da Davide Galassi a chiosa del biliardo di detti e contraddetti su una questione che a tutti i frequentatori di questo blog pare stia in un modo o nell’altro molto a cuore, e che potrei riassumere appunto con il titolo di Quanto ci resta. La risposta pare la diano persone di scienza nel mondo e da tempo. Questo si è detto.
Confesso che le mie informazioni sullo stato di salute del pianeta e dei virus più potenti che lo abitano, cioè come implicitamente nota Galassi, gli esseri chiamati con voce impropria umani – 8.000.000.000 ; mille più mille meno – queste informazioni non le traggo da letture speciali o specialistiche ma dalla stampa, come sapete soprattuto internazionale ( sono molto bravi in merito al NYT, al Guardian e al País che riportano e rimandano a testi che di volta in volta rimandano a pubblicazioni, studi, ricerche apparse sulle varie e illustri riviste scientifiche.)
Soprattutto però le mie opinioni le formo osservando così a occhio nudo le mie 60 piante ogni anno da anni: si risvegliano un poco più presto ogni primavera, stagione che ormai si situa tra fine gennaio e i primi di febbraio, di più, tendono ad avere una sete paradossale – fatto che mi è stato confermato sabato scorso da una vivaista ad Orticola ( Milano) – si asciugano a venti che corrono come stasera in modo strano e caldo, sì non fosse che non è föhn da nord ma un scirocco, raro mi sembra in queste plaghe settentrionali. Poi osservo la difficoltà che si ha a tenere pulito un paesone come Lecco e a mantenere un certo rigore e disciplina nello smaltimento individuale dei rifiuti che sono di molte altre città la principale attrazione turistica. Osservo la quantità sempre maggiore di veicoli che ingombrano le strade invece di corrervi. Osservo il fermarsi al bar a chiacchierare col motore del suv acceso. Osservo lo spreco, anche quello che produco io se non mi impegno alla rovescia, osservo tante cose, non ultima la catastrofe ( catastrofe di animali per esempio affogati negli allevamenti intensivi – fatti non per sfamare ma per arricchirsi – ; ho letto di cavalli che hanno nuotato per giorni nell’acqua alta ; non parlo dei gatti e dei cani e di conigli sì dei conigli morti e migliaia; non parlo degli umani, ai quali per abitudine fin dall’infanzia non va tutta la mia tenerezza… e i figli? E i figli già te l’ho detto, per loro provo disperazione e rimorso perchè politicamente chi come noi pensava, avrebbe dovuto svegliarsi un po’ prima di Greta Thurnberg e invece di occuparsi di Moro e Berlinguer battersi per la questione della sopravvivenza onorevole della specie o almeno dell’uomo europeo) non ultima dicevo questa catastrofe ; cose insomma che riguardano il quotidiano e sulle quali lascio a te il compito di trarre se ci sono, altre considerazioni, di là quelle già postate.
Questo per dire che di sicuro su molte questioni chi scrive parla un po’ a Vànvera, personaggio che si sa risponde quasi sempre a Muzzo. Mi pare però che concludere o che siamo troppi, verissimo, o che non c’è più niente da fare è stato bello sognare, o che xe pegio el tacòn ch’el buso, ovvero che dalla spirale industriale o del capitalismo non si esce, che le pale non girano abbastanza svelte e le centrali elettriche inquinano più dei milioni di autoveicoli e di fornelli a gas ma quelli elettrici sono i tacòni pegiori dei busi bah, a prescindere dalla fonte di formazione di queste opinioni, a prescindere, tutto questo mi pare porti a concludere che ci sono due vie d’uscita. Cioè di soluzioni finali: una, tirare a campare di inerzia come si può fino all’ecatombe che prima o poi arriva ; due, sperare nella bomba fine di mondo di Stranamore. Bomba che potrebbe non essere atomica ma demografica, bomba a miccia mica tanto lenta, anzi. Non so, siccome sono come si dice àteo non nutro il malessere della speranza ma il suo contrario, tuttavia penso che arrendersi non sia un’opzione. Salutandovi indistintamente
Non conosco l’autore qui di seguito, nel titolo mi specchio, domani lo compro.


Quand’io era piccino i’ mi’ babbo tra le tante storie che raccontava e ripeteva c’era quella del diamogli un’aspirina. Da parte dei medici militari di allora, tempo di guerre – raccontava – diamogli un’aspirina era la prescrizione per ogni tipo di malattia che non rientrasse nel novero dei disastri, la blenorragia per esempio, per la quale invece avevano tinture e salsepariglie ; in mancanza però di antibiotici. Si agiva, se si agiva, sul sintomo. Diamogli un’aspirina era la panacea, l’elisir di Dulcamara, voglio credere non tanto per ignoranza totale di medici che tuttavia avevano studiato, quanto per scarsità di medicinali adatti e di medicinali in genere. Ora non voglio farla lunga ché mi pare sarebbe di cattivo gusto aggiungere un’altra goccia al vaso sbeccato e traboccato ma osservo che di fronte alla catastrofe, diamogli un’aspirina, mettiamo in campo le pale, anche di elicottero, e i volontari, bella lì, e soprattutto i condizionali futuri e i participi assenti di una politica per mia ferma convinzione patologicamente sorta da e preparata alle mosche dei consigli di classe in oscuri istituti dell’agrigentino, non di più, e geneticamente dall’altra parte della realtà : oltre lo specchio di Alice in un mondo di trattorie e fettuccine e maglioncini della protezione civile. Alé oh oh alé ohoh. Sai vero la storiella di quell’olandesino che tappò il buco nella diga con un dito. Bella lì.
Un amico con buona memoria ieri mi ricordava che già nei primi ’70 il professor Principe di lettere, al liceo Manzoni di Milano, spengeva i termosifoni in classe e tuonava contro le automobili e faceva a suo modo ostruzionismo al dilagare di Fiat 128 azzurre, catafottendosene ad attreversarle non sulle strisce ma rotolando sui cofani anteriori, tra strepiti e furie dei guidatori. E credo che le cose fossero chiare già nel 1974, anno del rapporto del Club di Roma (→Treccani) sulla salute del pianeta. Qui invece si parla di maltempo e di eventi estremi, cioè si attribusce il morbo agli untori. Non alla formidabile diffusione dell’attuale peste nera: l’inquinamento. L’inquinamento nasce dalla canna del motore che scalda l’atmosfera e patatì e patatà alla fine genera il maltempo, nel senso di mala tempora currunt. Punto. Ora mi pare che sarebbe tempo per la politica di darsi al buon tempo di scendere dal pero ma anche da mezza altezza e di buttarsi a capo basso, intanto a studiare che male non fa dicono, e poi in azioni drastiche non in improvvidenze divine cioè ministeriali.
Per l’Italia mi pare che sarebbe il momento di proibire da subito, ma subito domani, ogni tipo di veicolo a combustione, sequestrare e riciclare il parco pubblico e privato attuale (anche la mia Skoda che mi costò 6 anni fa 10k euro ma che non posso sostituire con un elettrica che di euro ne costa 30/40k se bastano e non li ho ; maaa non mi dire tu che non si può fermare il padroncino con il furgone a nafta di 40 anni fa, farlo scendere e buttargli il furgone in un fosso, ope legis) vietarne da domani la fabbricazione e piegare le industrie, che peraltro sembrano più attente all’elettrico di quel ministretto di poco corso che abbiamo, a installare motori elettrici alle macchinine in fabricazione e punto. Poi smettere di trivellare petrolio e gas. Cioè farsi nemica di petrolieri e dame del FAI con il SUV ma dama di compagnia della sopravvivenza; sempre che si punti ad essa. (Poi si sa l’auto è inquinante in sé, mi ricorda lo stesso amico, datosi che è un cartoccio di plastica e metallo).
Inascoltati e anticipatori c’è una schiera di letterati ambientalisti che fuma di rabbia in articulo mortis, prendi Calvino ma anche Rigoni Stern, ma prendi anche Rosi il cinematorgrafaro: Le mani sulla città denuncia la camorra e il suo senso spiccato per il cemento, cioè per la devastazione del territorio. Sento, oh se lo sento, qui intorno a me il coro degli avvocati del diavolo, dei pigri, degli opportunisti, delle persone dal buon senso fino, perversione di ogni senso, che mi rabàrbarano eh ma Paschca’ tuminsegni eccome si fa di ogni cosa che disturbi il delicato loro equilibrio casa-supermercato-terza puntata di Law and Order. Come si fa’ ; si fa; ma ci vuole il coraggio di essere inattuali. Sono stufo dico di sentire sparare cazzate su fratello sole e matrigna pioggia. L’uomo televisivo, anche come commentatore, è scotòmico: vede la goccia sulla punta del suo naso. Di imbecillità si crepa. QED (→ Wiki)
O almeno di’ qualcosa, esclama Giovanni Moretti in Aprile fronte al televisore acceso su uno sciagurato Portaporta con D’Alema in trincea muta e sorniona contro le bave del Cavigliere in Vespa. Il resto della battuta è il celeberrimo, D’Alema di’ qualcosa di sinistra. Ho rivisto questo mercoledì e ieri l’altro i film del nostro, Aprile appunto e Palombelle rossa.
Quest’ultimo è proprio che te lo devi rivedere se hai voglia. Un po’ perché ti rendi conto di quanto acuto sia e profetico Moretti – ma sappiamo, poi girò Il caimano la cui profezia, almeno in superficie, ancora non si è avverata ma non si sa mai – un po’ perché è un piacere constatare a distanza di quarantanni i suoi tratti geniali, tratti caratteriali e d’arte in Habemus papam e da poco con il capolavoro in essere, Il sol dell’avvenire. ( qui in Aprile, 21, Una fontana zampillante) Ma ciò che mi ha colpito, guardando e riguardando questi film a memoria, è l’accento posto da Moretti alla questione delle parole: in palombella l’amnesia del suo eterònimo Giovanni Apicella va al passo con le ripetute esclamazioni contro la manipolazione del linguaggio… trend negativo… io non ho mai usato queste parole… trend negativo. Se hai voglia, ripeto, riguardi e ci fai attenzione.
Per concludere in profezia ti domando se per caso il nostro attuale cognato della “prima ministra poi chi lo sa”, dr.Insalatariccia, abbia scoperto la parola etnìa come titolo, succedaneo ma altrettanto machissimo e fascistissimo, per un altro rivisto de noantri in preparazione forse nel suo piccolo orto nero, La difesa dell’etnìa ( vedi foto) In effetti suona più grattaevinci che il nerissimo, La difesa della razza : https://it.wikipedia.org/wiki/La_difesa_della_razza.