Quint Buchholz (1957) – Man, Reading (III),
È sempre molto difficile astenersi dal dire cose di cui, inspiegabile il perché, si abbia tuttavia una conoscenza intima, a priori, tale da esercitarsi come convinzione, buona in buona fede, benché il più delle volte non dimostrabile. Un po’ come succede a tanti matematici certi dell’esistenza di un qualche passaggio a nord-ovest per arrivare alla dimostrazione bella ed elegante del teorema che li cattura, ma molto prima che essa si sia disegnata con chiarezza nelle loro menti come tale, passo per passo. Così è difficile quantificare in percentuale, tra l’oggi e l’ieri discernere tra chi scrive a sé stesso, Leopardi, Tolstoj, Proust, Céline, Simenon, Cioran, ossia tra chi scrive a un altro qualcuno, a un anìmula vàgula in ascolto, e chi scrive per sé stesso – questo elenco è molto più fornito e di nomi spesso men che minori… Guido da Verona, Pitigrilli chissà, hmm no in fondo anche loro… ma nell’oggi tranne qualche tranne, l’oggi ci riserva mi pare una pletora di Autongrafoùmenoi, automonoscrivitòri, in perenne idillio con Narciso e Boccadoro insieme, adorati dall’editoria e adoratori di quest’ultima, più che della pagina bianca cui non saprebbero imprimere, come il pilota alle vele il buon vento che le porterebbe lontano, tanto lontano da me, sé, té. No no, sono coloro geometri, a volte nemmeno, assemblatori di casette a schiera, del tutto ignoranti dell’effetto che il loro anodizzato comporre possa avere sul viandante, per non parlare sull’ambiente che, a breve difendersi non può e che solo a lunghissima scadenza sa lasciar fare a’ rovi, radici e topinambour, Helianthus tuberosus. Si sa peraltro l’irresistibile fascino che la storia-della-mia-famiglia – mamma, figlia, amante – con tutti i suoi animali e i suoi amori, ha sulle folle che non leggono ma scorrono in cerca del loro vangelo, quello che li ha annunciati a sé stessi. Detto tutto questo, ieri mattina mi ha toccato la telefonata di un amico lontano e tuttavia tale che, jockin’and smiling, mi ha dichiarato di leggere sempre quello che scrivo benché, testuale, Scrivi anche delle stronzate. Attenzione qui; non ha detto cose incomprensibili, massima che mi avrebbe seccato ma, stronzate. Nell’alveo del suo mondo capisco anche perché e ho reagito come si conveniva, con una sincera risata. Attenzione non si tratta di savoir faire, my fair blady né tantomeno di bontà, attitudine di cui per mia fortuna non ho esperienza. Nella stronzata mi sono ritrovato, è sincero ciò che dico, tanto quanto l’amico nel dirlo e l’amico aveva non solo il diritto quasi il dovere di dirmelo perché… per una ragione semplice… perché tuttavia mi legge. Non mi ignora. E dunque grazie. Mi fa dono della sua attenzione benché adoperi la sua facoltà di non accatastarsi come ammiratore senza criterio alcuno. Non piacere non è grave, al contrario; essere ignorati ferisce, quanto feriscono ignoranza appunto e cretinaggine – è di Pitigrilli la frase, mi pare di ricordarla in Dolicocefala bionda ma ho perso il volume, Capisco il bacio al lebbroso, la stretta di mano al cretino, no – un po’ come quei ritratti fatti per vendetta, tali da suscitare il disappunto di chiunque li guardi. Ignorare è di fatto uccidere, metonimia dello stupro, propaggine mentale del campo di sterminio, tatuaggio che dice non leggibile, non letto, ovvero da non leggere. Perché l’ignorare, ah quello anticipa e palesa un giudizio inappellabile, lo che la saccenza contemporanea impartisce a tutto quanto non scenda a patti con l’insipienza… A letto sentire che l’amato non c’è oppure che si è amato fino allora un feticcio. Anche questo è pur vero o pare, concludo per prudenza; non ho mezzi per una dimostrazione. Stronzata è il limite posto al credersi. Sia esso operante o no in chi scrive. E il sapere per certo, anzi avere la certificazione provata che ciò che pensi non è detto trovi la sponda su cui approdare felicemente. È un limite ma sconfinato. Pubblicare importa così poco
Scrivere per dire a se stessi non sé ma il mondo. E allora la scrittura diventa semplicemente necessaria, come il respiro. È questo che in te vedo, Pasquale.
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Caro amico ti ringrazio e ti dico, mi viene in mente il nostro FN, quello che abbiamo immaginato a Sils, avventurarsi, lui sventurato, nell’intrico di passi e ripassi tra acque, laghi e sassi; dubito che avesse a disposizione Wanderkarten di un qualche istituto geografico; la possibile e forse unica guida erano per certo le indicazioni del pastore, anche inteso d’anime, del contadino, del maestro elementare o del medico condotto… links am Ecke gibt es eine Riesenstein Herr Doktor… e poi si sa, chiunque abbia scrutato i segni lasciati da generazioni di valligiani invece che i tracciati autostradali dei club alpini, conosce gli intrichi, le giravolte umane e caprine dei sentieri; spesso condurrebbero alla morte, a non fare attenzione, vanno interpretati e oggidì lasciati con prudenza in pace. Condannarsi alle indicazioni topografiche. Perchè ti ho risposto così non saprei dire… ma ho ritenuto indispensabile appunto lasciarti queste parole. A qualcuno apparterranno. Con indeterminabile gratitudine.
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