Quint Buchholz – Boy with book (2013)
Ebben giochiamo. Nel pubblicare il commento del prof. Biuso al mio scritto qui di seguito, commento che mi onora in modo particolare, mi pare bene solleticare il lettore a cimentarsi e direi prima, con la lettura dell’articolo che il professore ha per l’appunto pubblicato sul Manifesto di ieri 17 agosto, articolo che, parafrasando Totò io potrei intitolare tempo questo nome non mi è nuovo, e che invece si titola Quel che accade tra Einstein e la meccanica quantistica. Buona lettura https://www.biuso.eu/2019/08/17/spaziotempo/
Che silenzio! Che aspetto di tristezza/Spirano queste stanze… Ascolta come recita Don Alfonso al principio della scena decima/atto primo del Così fan tutte. L’intonazione ovvero l’intenzione suggerita da Mozart alla voce, per queste prime due righe del recitativo che seguirà, come dirla non saprei, se dubitosa, guardinga, opaca, o nel vago, dimessa; ohi ohi torna sempre difficile trovare gli aggettivi che si intonino al da dire e al già detto e, nel recitativo secco, solo pallidissime sfumature imperative del cembalo, indicano alle parole intorno a quale affetto ed effetto possano aggirarsi, nel caso specifico come vertere a tramonto prima di riprendersi nel tono maggiore consono al burlesco dell’opera. Con nove parole si può dire molto. Così, diffusa nella familiare immagine delle persiane chiuse di casa, poco dopo l’alba, in questo agosto che tramonta anch’esso mi pare di percepire un’auretta di morte, che sull’idillio incomba un presagio. Talune immagini sono un giudizio inappellabile.
Se ci penso, riesco a vedermi attraverso un mirino, e provo una noia… la noia dello sniper in attesa… così mi sono colpito stamane nell’osservare me stesso aggrappato all’orizzonte, sul ciglio di un buco fondo come la notte anteriore ad ogni nascita, al presentarsi all’esistere. Resistere. Per carità, che cosa si faccia al mondo, non è la domanda in agguato da ogni pulpito con la risposta pronta, va’ là… ogni risposta da pulpito è diversione; tutto, pulpiti, messe nere e bianche, letture, studi, calcolazioni ingenieristiche, l’esercizio della medicina, dell’arte, anche della cucina è diversione, ritrovati per negarsi alla realtà di api e formiche, parti partoriti da un sistema che ha in sé stesso ogni scopo. Chiamala chiamala in latino, natura naturans… fa subito un certo effetto il latinorum… bellissimi i fiori compaiono e scompaiono e, in grande, compaiono e scompaiono le stelle. Dicono, dicitur. In sintesi estrema a M.me De Nature pare necessario che si mangi e si fotta, nelle maniere che ciascuna specie conosce. Esaurita soprattutto la seconda funzione, si sa destinata al crescete dannati e sgrufolatevi, e sfumata la convenienza di proseguirla solo per gioco o diletto, restano a mala pena i ricordi. Inconsistenze. Il bordo del buco ha una catena, sai le catene che si pongono sui monti a fantasioso appiglio per proseguire il cammino, rampicarsi là dove proseguire sarebbe una stupidata oltre che pericoloso, una catena di distrazioni dall’abisso… in chiaro, la cosiddetta cultura, le cose dotte e dette con qualità, sono prolungare l’esistere con un accattivante sostituto dell’orso di stoffa dell’infanzia… chi ha avuto la fortuna o la sfortuna di possederne uno… sono difesa da ogni tentazione per il quotidiano… ma vallo a spiegare a un negro con gli occhi incollati dal pus di mosche assassine.
Potrei mollare le grinfie da quel bordo, da quella catena e suicidarmi… ogni sera alle undici prendo venti gocce di sonnifero, così tengo a bada i mostri e i dolori che si presenterebbero immancabili alle due, alle tre con una recita della morte di cui solo i sogni costituiscono la prova contraria… l’atto necessario che te tu hai a prevedere ma per il quale v’è da confessare non tanto il manco di coraggio o forse sì, e più il terrore del dolore, ma della visione lucida, senza compromessi con sé stesso; e la completa impossibilità di pensare, che si crede sia il costituente del vivere da formica o da ape. Esse fanno, si riproducono e muoiono. Dannatamente i bipedi, alcuni, siamo dotati del pensiero di noi stessi. A questo stiamo aggrappati. Sul buco. Penzoloni. Basterebbe lasciarsi andare per estinguersi, è risposta più che domanda.
Una tristezza senza malinconia mi guarda da lunge il bordo del buco. Un’oscurità avanza in me, una perfusione, in ognuno un clisma opaco, tranne in quelli che sfrecciano in motoscafo sul lago come al comando di un incrociatore con tanto di figherìa al vento per di dietro.
Nell’umano si instaura, col nascere credo, la tendenza, che muta poi in abitudine al fare, quel che sia sia, in luogo del lasciarsi fare; al pensarci sopra quel che sia sia senza pensarsi sotto; che sia perdersi tra gli scaffali della biblioteca di Alessandria, che sia darle fuoco, che sia schiantare le proprie sanguinarie obesità su una motoretta, appagati da esse e presaghi delle prossime scofanate, estive invernali, di intingoli, di sughi, che avvelenino la bocca a farne quel che è, una cloaca inversa; che sia fabbricare il tempo per scrivere, leggere, che sia affrettarsi e adoprarsi a fornir l’opra di vendersi almanacchi. Tutto nel mondo è antidoti, sedativi, vaccini. Tuttavia tra il delicato urologo che deve visitarne le interiora e il paziente elefantiaco che indica la su’ ganza storta e dice, Vede questa dottore io dopo me la devo scopare, tra quel medico che si è speso in studio e che senza chiudere gli occhi gli esplorerà l’ano rivoltante, trarrà presagi dalla su’ vecchia prostata, dal glande mal lavato, tra il dottore che di tutto ciò ha orrore, frugivoro in tutto, tranne che del sapere e quel bestione, nessuna distinzione è certa. Perché la costituzione di ciascuno, di ciascuna cosa, pianta, animale è un non so come lo chiamerebbe Heidegger. Sia chiaro caro mio che questa non è un a meditazione filosofica per cui occorrerebbe essere capaci, avere le sovrastrutture, le catene adeguate; qui siamo n’un campo di ginestre. Povesia. Cuantas palabras. Ciance e farfugli… se ci penso, riesco a vedermi attraverso un mirino, e provo una noia irresistibile.
Poscritto. Le religioni, accortamente camuffate a mezz’acqua in vari modi, sono di preciso le sirene di Ulisse, con la stessa bocca con cui cantano ti sbranano ma te tu ha’ da dirmi la differenza di ceri tra quelli al Buddha di un santuario in Corea e quella alla Madonnina, del cinquecento beninteso, dimmi la differenza, dimmi che suicidio è se non a rate. La religione si incarica di tenere in vita morti con piccole dosi continue di ciance. Tra la pillola per sopravvivere, nella convinzione di, e il lardo di maiale perché è buono dov’è la differenza chi lo sa. Ovvero c’è, di scelta, ognuno sceglie quali ambardàn, con quali trick e track intrecciare e ancorare la catena sul bordo del buco. A ciascuno la sua. A ciascuno il suo. Ognuno diverso a modo suo. Ognuno suona un destino. E infin della licenza ci si aggrappa a tutto pur di esistere. Chiunque il sa che per avventura abbia provato l’ebrezza di spencolarsi nel vuoto aggrappato ma a un mano, o un volto, o a una voce. No more I love yous
https://www.youtube.com/watch?v=mK6j3zx3W9s
E, per i colti che non vogliono farsi cogliere dal pop e che tuttavia meritano qualche consolazione di ferragosto
https://www.youtube.com/watch?v=mmCnQDUSO4I
Eyes wide shut – Stanley Kubrick (1928-1999)
Caro Pasquale, in un mio breve articolo uscito ieri si legge una riflessione sul divenire e sulla finitudine. Per quanto osservato da un’altra prospettiva rispetto al tuo testo, credo che vi emerga lo stesso sentimento del tempo. Ecco il link: https://www.biuso.eu/2019/08/17/spaziotempo/
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